La storia vera della popolazione amiatina risale però all’inizio del secolo VIII° quando sorse il monastero benedettino di S. Salvatore. La Tradizione attribuisce la sua fondazione al re longobardo Ratchis, successore di Liutbrando, ma la critica attendibile ritiene che il vero fondatore sia stato un frate friulano Erfone che venne a vivere da eremita nelle selve inaccessibili dell’Amiata. La leggenda del re Ratchis sarebbe stata introdotta dai monaci, per dare lustro all’abbazia e tutelare meglio i diritti feudali di cui ebbe a fruire nei secoli.
Col monastero benedettino presero a svilupparsi i paesi sparsi nella spirale della montagna, fra i seicento e gli ottocento metri di altitudine, che le fanno corona. Prima del secolo VIII° non si hanno documenti che attestano la presenza di grossi centri abitativi nelle pendici del monte. Si hanno notizie circa la presenza di “pagus” o “casali”, piccole comunità con territori annessi, risalenti all’epoca etrusca e romana, composte all’inizio probabilmente da famiglie di boscaioli e di militari. Col tempo si formarono altri agglomerati umani, detti “celle” attorno a piccole chiese plebane. Sotto l’impulso dell’abbazia che aveva raggiunto enorme potenza, la popolazione in continuo aumento abbandonò gli antichi villaggi e si raccolse, anche per motivi di sicurezza, nei centri fortificati, cinti di mura e fossati. Nacque così Castel Badia S. Salvatore, paese che ebbe più importanza degli altri perchè centro della signoria degli abati che con alterne vicende estesero i loro possedimenti fino al mare Tirreno. I monaci, dapprima, ebbero la signoria assoluta sul paese di Abbadia S. Salvatore, esercitando in pieno la giurisdizione religiosa civile e penale. Il loro dominio temporale fu presto ostacolato dalla potente famiglia degli Aldobrandeschi, d’origine longobarda, dalla feudalità di Siena e dagli stessi badenghi che rivendicavano la loro autonomia. Il paese riuscì ad affrancarsi dalla soggezione del monastero via via che sull’Amiata andava affermandosi la potenza della Repubblica di Siena.
Nel 1212, sotto la minaccia di una sommossa, l’abate Rolando concesse ai badenghi uno statuto che permetteva loro di eleggere direttamente i propri rappresentanti: podestà, priori e consiglieri. Nel difficile cammino verso l’emancipazione dal dominio dell’abbazia, il popolo badengo riuscì a strappare uno statuto di larga autonomia. Fu appunto in quella occasione che l’abate nel 1292 fece donazione al Comune di Castel di Badia del fondo della macchia faggeta e cioè del terreno che al di sopra dei boschi di castagni si estende sino alla vetta dell’Amiata. “Tota fagarum sylva, quae est super castanearum vegetationem”, come riporta trascritto l’atto notarile, rogato in Collemala dal notaio Vulpinius. La parte superiore del monte, all’epoca, era poco sfruttata dai monaci essendo diventata una faggeta inestricabile, quasi inaccessibile. I badenghi con quell’atto furono autorizzati dal Comune a fare uso del bosco dietro il pagamento di una fida. L’atto di donazione dell’11 novembre del 1292 fu importante perchè affrancò dal diritto feudale un vasto possedimento boschivo dell’abbazia. L’altra parte della montagna, fino alla confluenza dei torrenti Rigo e Senna col fiume Paglia: un terreno di erte pendici di castagni, di radure per i pascoli, di campi per le semine, fu concessa in enfiteusi dagli abati alle famiglie, molte delle quali residenti in paese, in piccoli lotti con l’obbligo di migliorare il fondo e di corrispondere le decime oppure tributi in denaro. Col tempo le proprietà rurali in concessione andarono per diritto di successione, dando inizio ad una frammentazione eccessiva della proprietà su un suolo il più delle volte arido, che solo la tenacia dei montanari abituati all’asprezza del lavoro, seppe rendere produttivo. Il badengo, che non aveva grandi possibilità di mutare il suo stato sociale, restava condizionato da una struttura economica povera ed autarchica.
Il Comune di abbadia S. Salvatore mantenne la proprietà del fondo della Macchia Faggeta sino alla fine del secolo XVIII°. In tutto questo periodo la popolazione potè fare legnatico, fare carbone, pascolare, seminare nell’alto bosco della montagna, pagando la fida al Comune, che lo stesso stabiliva di volta in volta. Sul finire del 1700, tra statarelli in cui era divisa l’Italia, sotto l’impulsa dell’illuminismo e della rivoluzione francese, si fece strada un nuovo principio di sovranità, che passò sotto il nome di “dispotismo illuminato”. La Toscana fu, più di ogni altro Stato, aperta agli influssi d’oltralpe. Il suo sovrano, Pietro Leopoldo di Lorena, volle instaurare un modello di amministrazione che, secondo i suoi intenti, avrebbe dovuto gradualmente abbattere i secolari privilegi feudali e dare incremento al benessere generale sfruttando meglio le risorse naturali. Nell’attuare questo rinnovamento il sovrano emanò nel 1784 un “motu proprio”, col quale si intimava di dividere e assegnare in congrue porzioni a privati cittadini, mediante vendita o allivellazione, i vasti patrimoni terrieri degli enti ecclesiastici e comunali per affidarli al libero mercato e renderli così produttivi.
Il provvedimento del sovrano di Toscana seguiva di poco quello del 1783 col quale veniva decisa la chiusura del monastero di S. Salvatore. Con l’obbligatoria vendita del fondo della Macchia Faggeta ai privati, i badenghi perdevano il secolare diritto di usare per scopi loro il bosco della faggeta.”La Società Macchia Faggeta, quale fu costituita con pubblico strumento notarile 28 Febbraio 1800 con le statuzioni di cui alla sentenza del Tribunale di Montepulciano del 19.02.1944, é una Società particolare, autonoma, avente per oggetto il godimento e lo sfruttamento del tenimento boschivo di proprietà sociale denominato “Macchia Faggeta” nonché il compimento di attività connesse alla valorizzazione del patrimonio sociale nell’interesse dei Soci. Rientrano nell’oggetto sociale, la trasformazione di sin¬goli appezzamenti di terreno facenti parte del tenimento di proprietà sociale, la trasformazione industriale del legname in prodotti grezzi e finiti, l’esercizio di funivie, ascen¬sori, sciovie, slittovie ed altri mezzi di trasporto a funi senza rotaie in servizio pubblico, l’esercizio di attività alberghiere e di impianti sportivi in genere, e comunque, il compimento di tutte le operazioni attinenti alle attività sopra specificate o con esse collegate.